La rue Auguste-Comte, una traversa di Boulevard Saint-Michel ombreggiata dai tigli, costeggia il Jardin du Luxembourg. Al numero 6 una targa ricorda che in questo palazzo, tipicamente hausmannien, Simone Weil trascorse gli ultimi anni parigini della sua sofferta esistenza. Fu qui, agli inizi di luglio del 1992, che incontrai André Weil per discutere dell'edizione italiana del suo Number theory, che stavo allora curando per Einaudi. Era solo nel vasto appartamento di famiglia, che appariva disabitato, e mi accolse con algida cortesia d'altri tempi. Parlammo di varie minuzie della traduzione, di alcuni dettagli della bibliografia, di Descartes; i commenti di Weil erano sempre laconici e lunghi silenzi punteggiavano la nostra conversazione. In parte per l'emozione, in parte perché mi trovavo costretto a parlare a voce innaturalmente alta ("Sono sordo", mi aveva detto subito, senza preamboli), il mio francese rischiava di tanto in tanto di incepparsi. Gli chiesi se avesse intenzione di partecipare al congresso europeo di matematica, che proprio in quei giorni si stava svolgendo alla Sorbona (la mattina stessa avevo intravisto da lontano, riverito da tutti, il suo vecchio amico Henri Cartan). Ebbe un guizzo di sarcasmo nello sguardo: da molto tempo aveva imparato che questo genere di congressi sono completamente inutili. Al momento di congedarmi, mi annotò su un foglietto giallo l'indirizzo della sua casa di campagna, a Parcé, un piccolo villaggio della Sarthe.

I miei rapporti con André Weil erano iniziati pochi mesi prima sotto cattivi auspici. Leggendo le prime bozze della traduzione di Number theory era andato su tutte le furie per la presenza di vari errori e imprecisioni nella terminologia matematica, accusando senza mezzi termini il traduttore e me di totale incompetenza. Gli inviai allora una lunga lettera, spiegandogli che il traduttore non era un matematico di professione, difendendo il mio lavoro, appena iniziato, di curatore e revisore e discutendo ad una ad una, con pignoleria estrema, tutte le correzioni da lui proposte. Weil mi rispose a stretto giro di posta: "Mon cher Collègue, je [...] tiens à vous remercier du soin minutieux et consciencieux que vous apportez à la traduction de mon livre". Due giorni dopo, comunque, ricevetti una seconda lettera con decine e decine di correzioni.

Il mio carteggio con André Weil proseguì l'anno seguente, quando tradussi, sempre per Einaudi, Souvenirs d'apprentissage. Nelle minuziose liste di correzioni, precisazioni, richieste di chiarimenti sulle mie scelte di traduttore, potevo intuire tutto l'amore per il sapere - e per il gioco intellettuale - di uno dei grandi matematici del nostro secolo, che ha scritto che "la matematica è solo uno degli specchi in cui si riflette la verità, anche se forse con più purezza che in altri".

 

Claudio Bartocci, "Lettera matematica Pristem", n. 36, settembre 2000.